[1] Così si legge nelle prime due terzine dell'Inferno: Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita; Ahi quanto a dir qual era è cosa dura / esta selva selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinova la paura.































































[2] F. Sansovino, Venezia città nobilissima et singolare, Venezia 1581, p. 10a.






































[3] C. Brandi, L'ombra di Giorgione, in "Arte Veneta", XXXII, pp. 85-87, p. 87.





[4] G. Vasari, Le Vite de' più eccellenti Pittori, Scultori et Architettori, scritte e di nuovo ampliate da M. Giorgio Vasari Pittore et Architetto Aretino, co' ritratti loro, e con le nuove Vite dal 1550 insino al 1567, Fiorenza 1568, ed. a cura di Gaetano Milanesi, I-IX, Firenze 1878-1885, VII, p. 427.
[5] B. Berenson, The Italian painters of the Renaissance, London, 1954, trad. it., ed. Milano 2001, p. 31.
[6] È interessante osservare che una delle letture iconografiche più convincenti dell'opera la fanno derivare dalla novella di Cimione e Efigenia narrata nel Decamerone. Nello spiare le nudità dell'affascinante Efigenia distesa in un "locus amenus", il rozzo Cimione, meditando su di essa, educa il proprio spirito alla contemplazione della bellezza. V. Branca, Interespressività narrativo-figurativa: Efigenia, Venere e il tema della "nuda" fra Boccaccio e Botticelli e la pittura veneziana del Rinascimento, in "Il se rendit en Italie": études offertes à André Chastel, Roma 1987, pp. 57-68. Si veda poi V. Branca, Interespressività narrativo-figurativa e rinnovamenti topologici e iconografici discesi dal "Decameron" in, Boccaccio visualizzato: narrare per parole e per immagini fra Medioevo e Rinascimento, a cura di Vittore Branca, Torino 1999, 3 voll., I, pp. 39-74.
[7] G. Vasari, Le Vite... cit., IV, p. 92.
IL PAESAGGIO NELL'ARTE.
L'IDEA DI NATURA NELLA PITTURA VENETA DAL GOTICO AL RINASCIMENTO.


Fin dai tempi antichi il mondo naturale è stato oggetto di simbolizzazione da parte dell'uomo in base alla propria visione della realtà. In arte la natura ha conosciuto concezioni ambivalenti che si possono ridurre, alle soglie dell'umanesimo, in due tendenze fondamentali: una negativa legata alla natura ignota, l'altra positiva legata alla natura conosciuta. Nel primo caso l'immagine emblematica è quella della "selva" come si trova citata da Dante nell'incipit dell'Inferno della Divina Commedia[1]. Tale concezione trova una corrispondenza visiva nell'allegoria dell'Ingiustizia dipinta da Giotto nella cappella degli Scrovegni nel 1305 circa nello stesso tempo in cui Dante scriveva la prima delle tre cantiche. Ai piedi della figura allegorica si vede come le azioni spregevoli frutto del vizio raffigurato avvengano in prossimità di alcuni alberi che richiamano l'idea del bosco. Diversamente, il giardino è spesso usato metaforicamente per alludere alla sfera divina secondo l'interpretazione del testo anticotestamentario del Cantico dei Cantici data dagli esegeti cristiani. Per rimanere in ambito letterario, il Decamerone scritto da Giovanni Boccaccio intorno alla metà del Trecento ribadisce l'immagine positiva del giardino chiuso che in questo caso è il rifugio di dieci giovani, tre uomini e sette donne, per sottrarsi alla terribile epidemia di peste che imperversa a Firenze. La bellezza e l'amenità del giardino è il luogo per sfuggire al dolore e alla morte. Questa contrapposizione tenderà progressivamente ad attenuarsi mano a mano che nell'uomo rinascimentale crescerà la dimensione mondana sacrificata dalla dualistica concezione medioevale che vedeva una netta separazione tra mondo naturale e sfera divina. Egli acquisterà consapevolezza della sua capacità di conoscere la natura spinto da un interesse per essa non più meramente utilitaristico. L'ascesa al monte Venosto in Provenza compiuta da Francesco Petrarca con il fratello e due amici nel 1336, senza alcuno scopo pratico, si può considerare l'emblematico inizio di questo processo. Il gusto ornamentale della pittura tardogotica tende a proiettare la dimensione del giardino nel paesaggio, costruendolo con una sensibilità decorativa che appare evidente nella raffigurazione e collocazione degli elementi naturali quali le rocce e le piante. Il paesaggio appare inoltre come una sommatoria di singole parti mancando la dimensione unificante della spazialità prospettica. In Veneto questa nuova spazialità si avrà a partire dall'opera del padovano Andrea Mantegna, primo artista rinascimentale del nord Italia. Tuttavia un precedente tentativo di offrire una coerente visione d'insieme del paesaggio era stato sperimentato dal pittore tardogotico Jacopo Bellini allievo di Gentile da Fabriano, nei suoi due album di disegni conservati al Louvre di Parigi e alla National Gallery di Londra. Solo negli ultimi anni la critica sta riscoprendo l'importanza che tali testi figurativi hanno avuto nella formazione non solo del figlio maggiore Gentile, ma anche di Giovanni cui si deve la nascita e lo sviluppo della pittura rinascimentale a Venezia. Nei disegni di Jacopo la descrizione dei paesaggi naturali sembra quasi contrapporsi alla rigida frontalità delle architetture, procedendo in profondità per linee dolci e armoniose con una ritmica quasi musicale che evidenzia la sua formazione gotica. Giovanni Bellini saprà conciliare questa armoniosa ritmica compositiva con la nuova cultura prospettica del cognato Mantegna, come emerge dal confronto, spesso richiamato dalla storia dell'arte, tra le rispettive versioni dell'Orazione nell'orto esposte l'una accanto all'altra alla National Gallery di Londra. La sensiblilità per il paesaggio di Giovanni Bellini troverà occasione di sviluppo nel contatto con l'opera pittorica di Antonello da Messina presente in laguna tra il 1475 e il 1476. L'artista siciliano era portatore di una nuova sensibilità per la luce che si evidenzia soprattutto nel genere del ritratto e della pala d'altare. Tuttavia anche il paesaggio risente della sua personalissima sintesi tra la sensibilità luministica e descrittiva fiamminga e la cultura prospettica rinascimentale. Come già per la produzione ritrattistica in cui egli trova uno straordinario equilibrio tra caratterizzazione descrittiva e resa psicologica data dal saper cogliere in un solo colpo d'occhio l'insieme della figura, così nel paesaggio esso appare dettagliato senza essere prosaico, rivelando in modo immediato il suo "carattere", che nel caso in questione potremmo definire "genius loci". Così nella pittura veneziana e veneta si comincia a riconoscere il carattere del suo territorio, non solo in Bellini ma anche in altri artisti veneti operosi sul finire del Quattrocento, tra i quali, in modo particolare, Cima da Conegliano. Questi nell'ultimo decennio del secolo diventerà il principale autore di pale d'altare della città lagunare, complice l'oneroso impegno di Giovanni Bellini nel portare a compimento il ciclo narrativo della sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale. Il ruolo del paesaggio comincerà ad assumere anche in questa tipologia di opere un'importanza via via crescente fino ad assumere un ruolo di co-protagonista accanto alle figure nel Battesimo di Cristo realizzato da Cima nel 1492 per l'altar maggiore della chiesa di San Giovanni in Bragora. Alla luce di quanto detto in precedenza non è privo di significato che Francesco Sansovino nella sua guida della città di Venezia del 1581 ricordi il paesaggio del dipinto come il "ritratto" della terra natale dell'artista, un termine affatto insolito a quel tempo[2]. Ma sul crinale tra Quatto e Cinquecento prende avvio un nuovo corso della pittura veneta e con essa un nuovo modo di raffigurare il paesaggio che osserviamo in Giorgione e nel giovane Tiziano. Tre gli elementi principali che concorrono a questa nuova modalità di raffigurazione del paesaggio, che riflettono sia aspetti di ordine culturale che tecnico artistico. Il primo elemento attiene al rapporto simbolico tra uomo e natura che si pone ormai su un piano diverso rispetto a quello di lontana derivazione medioevale di tipo iconografico, nel quale ogni singola pianta dell'Hortus conclusus rimanda a un preciso valore simbolico secondo quanto ancora si osserva in artisti come Cima da Conegliano. Questo mutamento di sensibilità è rintracciabile soprattutto in un'opera letteraria ampiamente conosciuta a Venezia in forma manoscritta prima della sua pubblicazione a Napoli nel 1504: l'Arcadia di Jacopo Sannazaro. Uno degli aspetti caratteristici di tale opera è la corrispondenza tra stato d'animo e paesaggio, quasi che il secondo fosse una proiezione del primo. Il secondo elemento è dato della crescente influenza delle incisioni di Albrecht Dürer, il maggior artista rinascimentale nordico, che conoscono notevole diffusione a Venezia e nel Veneto. Lo stesso Dürer sarà presente nel capoluogo lagunare, da giovane artista nel 1494-95, da affermato maestro nel 1505-06. La sua è una natura più aspra e incombente di quella finora osservata, che si affaccia sul primo piano con speroni rocciosi e masse arboree ma, complice il medium artistico, con una più ridotta varietà vegetale. Il rapporto simbolico con la natura sarà quindi più legato al contesto come per l'Ercole tra la virtù e il vizio, soluzione paesaggistica che sarà ripresa diversi anni dopo dal giovane Tiziano per le due personificazioni dell'Amor Sacro e Profano della Galleria Borghese di Roma. L'ultimo elemento è connesso al rapporto con l'opera di Leonardo ancora oggetto di complesse valutazioni critiche da parte della storiografia. Al di là della breve presenza di Leonardo a Venezia documentata nell'aprile del 1500, appare probabile che la tonalità più calda e fusa che la materia cromatica comincia ad assumere nella pittura veneziana all'inizio del nuovo secolo sia in relazione con lo sfumato leonardesco. Non si tratta più di un colore steso sopra le masse plastiche per farne brillare la superficie ma del colore stesso che crea il volume perchè esso, secondo le belle parole di Cesare Brandi, è "come il colore del mare o del cielo, è colore di una profonda oscurità che la luce penetre solo fino ad un certo punto"[3]. La finalità di costruzione plastica del disegno viene quindi assorbita in gran parte dalla stesura pittorica e in tal caso la luce è più finzionale alla resa delle masse che a quella dei dettagli. Questo ci viene implicitamente testimoniato da Giorgio Vasari nel noto passo in cui leggiamo che Giorgione "cominciò a dare alle sue opere più morbidezza e maggiore rilievo... senza far disegno, tenendo per fermo che il dipingere solo con i colori stessi senz'altro studio di disegnare in carta fusse il vero modo di fare ed il vero disegno"[4]. Giorgione, autore di opere in cui il paesaggio assume un ruolo decisivo quali la celebre Tempesta (Venezia, Gallerie dell'Accademia) o il cosiddetto Tramonto (Londra, National Gallery), viene definito da Bernard Berenson "limpido specchio della Rinascienza alla sua altezza suprema"[5]. Tale perentoria affermazione, se interpretata in chiave "paesaggistica" come perfetta armonia tra uomo e natura, mi pare giustificarsi in maniera emblematica nell'ultima opera realizzata dall'artista e portata a compimento da Tiziano: la Venere della Gemäldegalerie di Dresda[6]. In quest'opera la sensualità che percorre la figura nella sua lieve, elegante stilizzazione, ancora di lontana reminescenza tardo gotica, trova corrispondenza nel dolce paesaggio collinare che digrada in profondità, se pure la parte destra spetti con tutta probabilità a Tiziano. Quest'ultimo, a ridosso della morte del maestro di Castelfranco realizza un dipinto che conoscerà un'enorme fortuna critica, in cui il paesaggio gioca un ruolo determinante. Nel Concerto campestre del Louvre, la cui attribuzione fu a lungo contesa tra i due artisti, la scena che si svolge presso una fontana sembra ispirarta a quelle "ragunate di persone nobili"[7] a cui Giorgione partecipava in qualità di abile musicista, molte delle quali si erano probabilmente svolte nel giardino del cosiddetto Barco di Caterina Cornaro presso Altivole che ispirerà anche l'ambientazione del poema di Pietro Bembo gli Asolani edito a Venezia nel 1505. Qui il muro che separa il giardino dall'esterno è ormai idealmente superato, la natura nella sua dimensione spontanea non turba più l'animo umano ma lo eleva in una comunione empatica di sentimenti simboleggiata dall'armonia musicale.

Redazione di venetocultura.org